Un decalogo del dialogo interculturale
Una testimonianza di servizio nelle parrocchie multiculturali negli Stati Uniti e in Canada
Vorrei proporre un decalogo del dialogo interculturale, secondo i suggerimenti del Santo Padre.
- Il primo è quello di creare una cultura dell’incontro, contrastando la de-individuazione, perché il contatto con individui di altri gruppi è una condizione indispensabile per la falsificazione degli stereotipi.
- In secondo luogo, superare la paura, nella consapevolezza che ciò che vediamo negli altri è soprattutto una proiezione di ciò che percepiamo in noi stessi come un problema o un difetto.
- Terzo, cambiare la narrazione, sapendo che c’è una narrazione e che è una narrazione.
- Quarto, raccontare e ascoltare storie individuali (il cosiddetto storytelling),
- Quinto, sporcarsi le mani, cioè avvicinarsi, per conoscere direttamente, senza intermediari…
- Sesto, spegnere i discorsi politici motivati da interessi etnocentrici, se non razzisti.
- Settimo, attenzione al linguaggio… le parole hanno un valore e un peso affettivo ed etico (per esempio, chiamare un immigrato senza documenti o illegale non è la stessa cosa).
- Ottavo, essere curiosi di vedere il mondo attraverso lenti diverse, di sapere come gli altri vi guardano, come loro guardano se stessi e il mondo che li circonda.
- Nono, che il desiderio di condividere le buone notizie sia sempre al primo posto.
- E decimo, avere una buona memoria, ricordare che anche noi siamo stati stranieri (Esodo 22:21).
Questo è il mio decalogo del dialogo interculturale. Ma se, come è stato chiesto a Gesù, anche a me venisse chiesto “Quale comandamento è il più grande di tutti i comandamenti” (MT 22, 36), quale sarebbe la mia risposta? Per me, il più grande di tutti i comandamenti nella pratica interculturale è “valorizzare la via pulchritudinis”: avere gli occhi e il cuore aperti (… e la bocca, e le orecchie, e la curiosità ….) per scoprire ciò che è bello, buono, attraente, e lasciare che questo vi porti a nuove vie.
Le vie della bellezza
La bellezza delle liturgie di gruppi di altre culture e tradizioni: la comunità americana ha chiesto di avere una Messa bilingue ogni domenica, perché ai giovani piacevano le messe della comunità brasiliana: più vivaci, piene di giovani, con musica più moderna, ecc. La bellezza di una danza, eseguita da alcune donne indiane, che ha conquistato l’intera comunità, rimasta in silenzio, percependo la poesia di questi movimenti. Il gusto di una nuova ricetta. La cucina è il laboratorio dell’interculturalità, se si è aperti alle sorprese. La bellezza dei costumi tradizionali. Penso ai bambini vestiti per la festa di Guadalupe e al fascino dei racconti tradizionali.
La ricchezza delle sottoculture nella cultura dominante. Per esempio, quando i membri della comunità americana scoprirono che anche loro avevano sottoculture diverse, a seconda dei loro antenati (italiani o irlandesi, o polacchi, o asiatici) e del loro luogo d’origine (se dalla costa orientale o occidentale, da una metropoli o dalle grandi pianure…). Molto bella è stata l’esperienza delle famiglie di origine della Louisiana, che hanno portato con sé il cibo cajun e creolo. La musica incantevole, i canti, le devozioni. In particolare la celebrazione della Guadalupana, che ha lasciato tutti commossi per la sua bellezza.
Cominciamo dalle nostre comunità
E a proposito di bellezza, come dimenticare i maestri dell’inculturazione: i meticci (mestizos) e le seconde generazioni. Il grande p. Virgilio Elizondo ha scritto che Il futuro è meticcio in cui sottolinea, appunto, come il caso dei meticci sia stato un caso particolare di incontro/scontro culturale che può ancora darci molti spunti di riflessione… Il “mestizaje” o razza mista è la mescolanza, l’amalgama delle due culture in una terza, molto più potente.
Le generazioni miste (frutto di matrimoni misti) e la seconda generazione di immigrati ci sfidano a vedere nell’interculturalità qualcosa del DNA delle relazioni tra gruppi etnici nel mondo globalizzato. Non dimentichiamo che tutto questo ha una profonda dimensione cristologica. Madre Teresa di Calcutta, citando Mt 25,40, ha detto che il Vangelo si riassume in una mano, cioè in cinque parole: You did it to me, l’avete fatto a me.
Come possiamo coinvolgere di più i migranti e i rifugiati nelle nostre comunità? Direi di cominciare dalle nostre comunità religiose, dai nostri gruppi, movimenti, dalle nostre parrocchie, che siano veramente cattoliche, esperte di interculturalità, non semplicemente multiculturali, ma competenti in interculturalità, esperte di cattolicità, non perché gli altri siano cristiani, ma perché noi siamo cristiani.
Vincenzo Ronchi