Una casa per tutti

Nel numero 4/2022 della rivista “Scalabriniani” padre Grasso racconta la storia della missione svizzera
Nel numero di luglio-agosto 2022 della rivista Scalabriniani padre Antonio Grasso, superiore della comunità scalabriniana di Berna, racconta la storia della missione in Svizzera. Eccone alcuni estratti
A Berna dal 1947
«La nostra missione cattolica di lingua italiana di Berna ha un lungo cammino. Noi siamo arrivati qui nel 1947, ma prima di noi, come in tante altre missioni, c’erano i sacerdoti bonomelliani. La presenza italiana, proprio tracciandola per piccoli flash, risale già alla fine dell’Ottocento. Tanti italiani venivano qui a lavorare nella costruzione dei tunnel e celebravano la Messa nella chiesa territoriale, chiamiamola così, della Santissima Trinità, ma nella cripta. C’era una grossa presenza anche dei ticinesi che lavoravano negli uffici della Confederazione già alla fine dell’Ottocento e quindi questa grossa presenza di cristiani cattolici di lingua italiana ha fatto sì che nascesse l’esigenza di questo momento di spiritualità in lingua italiana, con un prete che veniva da Friburgo.
Piccolo particolare, credo sia interessante ricordare che tutte le chiese erano state incamerate dalla Riforma protestante. Quindi fino al 1800 e oltre non esisteva nessuna chiesa cattolica e questa della Trinità è stata la prima costruita daccapo. Tutte le altre sono degli anni Cinquanta-Sessanta, tra cui la nostra stessa che è stata costruita nel ’63. Il prossimo anno celebreremo i nostri sessant’anni.
La comunità, già allora si chiamava “di lingua italiana” perché c’erano ticinesi. Nel ’47 siamo arrivati noi in cinque con l’idea di costruire. Venduta la vecchia sede, hanno chiesto fondi alla Société de la Chapelle di Ginevra, alle banche, e così hanno comprato il terreno. Sono partiti da zero, ma hanno ottenuto tutti i permessi e nel ’59 hanno iniziato a porre la prima pietra. Il modello era quello bonomelliano della “casa fuori di casa”: c’era quindi il ristorante, il cinema, la chiesa, l’asilo».
Costruire qualcosa di nuovo
«In testa c’era il concetto che il migrante prima o poi sarebbe rientrato. In più c’è da ricordare che la legge svizzera fino agli anni Settanta non permetteva il ricongiungimento familiare. Soltanto permessi per gli immigrati stagionali che dovevano andare via, e poi ritornare. Nel ’63 è terminata la chiesa con la dedicazione alla Madonna dei Migranti. Ora, da questa che era la classica missione cattolica italiana, gradualmente, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, sono cambiate diverse cose. Dal 2000 in poi noi registriamo davvero il passaggio a missione cattolica di lingua italiana.
Come continuamente dico ai miei parrocchiani c’è una diversità interna: la missione non è una missione nazionale, non siamo italiani, siamo italofoni. Vuol dire che i ticinesi sono parrocchiani a tutti gli effetti, che ci sono tante coppie multiculturali e confessionali che hanno il diritto di sentirsi a casa. Ci sono tanti italiani che sono sposati con svizzere, con portoghesi, latinoamericani, con croati, serbi, con francesi.
In sintesi: vorrei che tutti si sentissero a casa. Non il 50% di essi. Dobbiamo quindi costruire qualcosa di nuovo dove non c’è un diverso grado di ospitalità, altrimenti riproduciamo all’interno quello che viviamo nella società, dove il migrante è sempre ospite.
Abbiamo qui in missione tanti svizzeri o anche non svizzeri, come indiani, filippini che sanno l’italiano e che si sentono bene. Si sentono a casa. È chiaro che la conoscenza della lingua italiana è un fattore importante, anche se poi abbiamo anche gente che non sa l’italiano, ma che in mezzo all’ambiente protestante, qui respira un’aria di fraternità. Sto assistendo ad un cambiamento identitario nella comunità, dove la lingua di comunicazione resta sempre l’italiano, anche se ormai si è sempre più bilingue. Battesimi, matrimoni, funerali sono celebrati nelle due lingue e così la catechesi».
In un’ottica interculturale
«Quindi c’è un lavoro ad intra per far sì che la diversità, che ormai è tratto costitutivo della missione, venga qualificata e valorizzata. Con due miei collaboratori, la coordinatrice della catechesi e il diacono che lavora anche nella catechesi, abbiamo scritto un piccolo manuale di catechesi interculturale. L’obiettivo è educare i nostri catechisti affinché valorizzino la diversità culturale, il background culturale dei bambini che hanno uno dei genitori non italiani. Se noi non lo facciamo per primi, è inutile che lo andiamo a rivendicare questo fuori.
Se il catechista si pone davanti ad una classe con sette nazionalità diverse appiattendo questa diversità, non considerando il background e senza pensare che forse le preghiere non gliele ha insegnate il papà svizzero, ma la mamma latino americana o la nonna, sto sbagliando strada. Questo è il processo in atto all’interno, in un’ottica interculturale, per una una missione che prende coscienza e consapevolezza dei cambiamenti culturali che sono avvenuti nel suo interno».